LA PESCA - Geometra Mario Vassallo

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LA PESCA

SUL SENTIERO DEI RICORDI > LA VITA NEL NOVECENTO ANDORESE
LA PESCA
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LA ROSA DEI VENTI
"La Rosa dei venti" realizzata dal cartografo ligure e per gentile concessione
Giovanni Pazzano
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L’ANTICA ATTIVITA’ DI PESCA

Anticamente, a partire dalla fine del Seicento, l’attività di pesca veniva spesso esercitata in forma complementare ad altre mansioni economiche primarie, tipo l’agricoltura, come testimonia un documento del 1684 in occasione della compilazione di un ruolo delle persone abili alla navigazione, nel quale si riporta che i marinai presenti nella giurisdizione di Andora sono “tutti zappatori”.
  
La pesca ligure era esercitata prevalentemente senza distinzioni specialistiche preferenziali a tipi di pesci e sommariamente in ogni località litoranea.
Pertanto, la cattura dei pesci stanziali lungo le coste (triglie, naselli, sardine, gamberi) si integrava con quella periodica delle specie in transito (maggio - giugno, per acciughe da salatura, sgombri e cefali).
  
La “pesca specialistica”, dedicata al tonno ed al corallo, richiede impiego di attrezzature costose ed armamento di flotte ed equipaggi adeguati.
Quella al corallo spinge stagionalmente alle coste della Sardegna, della Corsica ed anche tunisine nella continua ricerca e sfruttamento dei banchi corallini più pescosi e pregiati, mentre quella al tonno rimane similmente mirata alle coste sarde.
  
I censimenti della Repubblica di Genova, finalizzati all’individuazione del numero di uomini in grado di prestare servizio sulla flotta militare evidenziano come nell’80-85% dei casi, nel periodo da aprile ad agosto, si recano “a guadagnarsi il pane in Sardegna, chi per negotii, chi per corallare e chi alle tonnare”.
Secondo le fonti documentali conservate presso l’Archivio di Stato di Genova – Archivio Segreto, nel 1684 Andora sarebbe rappresentata da 210 individui, mentre Laigueglia da 198 e Cervo da 387.
Invece, in base a fonti documentali conservate presso l’Archivio di Stato di Savona – Dipartimento di Montenotte, agli inizi del XIX secolo:
  • Andora presenterebbe una (1) sola imbarcazione commercialmente destinata alla pesca di tutte le tipologie di pesci, con 14 pescatori impegnati e con valore del pescato (espresso in franchi) di 16.000 (con la precisazione “che la pesca nelle acque di Andora è esercitata da forestieri e gli abitanti sono in prevalenza agricoltori”);
  • Laigueglia presenterebbe dieci (10) imbarcazioni commercialmente destinate alla pesca di tutte le tipologie di pesci, con 200 pescatori impegnati e con valore del pescato (espresso in franchi) di 45.000;   
  • Cervo presenterebbe una (1) sola imbarcazione commercialmente destinata alla pesca di tutte le tipologie di pesci, con 6 pescatori impegnati e con valore del pescato (espresso in franchi) di 800.
In totale sono censite 213 imbarcazioni e 2.125 pescatori, pari all’8% circa della popolazione maschile in età da lavoro ed il valore del prodotto supera i 532.000 franchi francesi.
 
La pesca viene spesso praticata in forma associata, attraverso forme contrattuali tra i proprietari della barca e delle attrezzature e chi apporta la propria prestazione manuale d’opera (come già in epoca medievale), nelle quali i lavoratori hanno limitato potere negoziale rispetto ed a vantaggio degli investitori.
  
La “società della sciabica” è una delle forme associative più diffusa nel Ponente in Età Moderna e prevede apparenti equi principi relativi alla spartizione dei proventi della pesca, che tuttavia vengono spesso e regolarmente disattesi dai proprietari delle attrezzature impiegate, in favore di accordi con i mercanti che gestiscono la commercializzazione e conservazione del pescato (“frizedori”), a fronte di una promessa di cessione del pesce a prezzo inferiore in cambio della garanzia di collocare l’intero prodotto, conseguentemente danneggiando i pescatori.
Talvolta, i mercanti fungono da investitori, anticipando capitali, speculando sugli utili della società ed acquisendo il controllo dell’intera attività di pesca.
  
Parte del prodotto fresco viene destinato sul luogo e nelle zone limitrofe per mezzo dell’opera dei “cavagnari”, mentre altra parte viene commercializzata trasportandola in entroterra e basso Piemonte (prevalentemente tonno, sardine ed acciughe).
La manovalanza nel settore si estende a donne, ragazzi ed anziani, occupando anche interi nuclei famigliari, occupandosi di vari compiti, come tirare le reti sulla spiaggia, preparare funi e attrezzature, partecipare alla lavorazione del pescato destinato alla conservazione (salatura delle acciughe, bollitura/frittura e successiva messa sott’olio, soffrittura con aglio e cipolla e successiva sistemazione sotto aceto in recipienti di terracotta).
Questo fenomeno comporta migrazioni stagionali di lavoratori dall’entroterra verso i centri costieri, pur sempre mantenendo la predominante dipendenza dall’attività legata alle coltivazioni agricole.
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Secondo stime dell’epoca, effettuate dal Conte Chabrol de Volvic – prefetto napoleonico del Dipartimento di Montenotte, un “patrono” poteva arrivare a percepire un compenso medio mensile di circa 36 franchi (equivalente a quello di un manovale edile), un componente dell'equipaggio circa 26 - 28 franchi, un anziano aiutante a terra circa 14 - 15, circa 10 a donne e ragazzi; tali compensi, in caso di annata poco fortunata, potevano diminuire per più di un terzo.
Una buona stagione di pesca assicurava un utile netto (dedotti ammortamento e spese di manutenzione) fino al 16 - 17% del capitale investito per il proprietario delle attrezzature e appena sufficiente a coprire in costi in caso negativo.
L'acquisto di un gozzo e relative reti comporta un investimento di circa 1.500 franchi, equivalenti a tre anni e mezzo di lavoro per un “patrono” ed a quattro e mezzo per un componente dell’equipaggio.
Un’imbarcazione di maggiori dimensioni, per la pesca al largo ed adeguata attrezzatura comportava un investimento triplicato, di circa 4.600 franchi, corrispondente a quasi undici anni di lavoro di un “patrono” e oltre quattordici di un componente dell’equipaggio.
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LA PESCA DEL CORALLO



Sulle pendici di Capo Mele, sul versante di Laigueglia, sorge un santuario intitolato a Nostra Signora delle Penne: in passato era l’ultimo edificio salutato dai numerosi marinai che ad inizio primavera si imbarcavano per recarsi sui ricchi banchi coralliferi, fino alla Corsica, alla Sardegna ed alle coste del Nordafrica, spopolando le località rivierasche nel periodo di pesca.
I grandi occhi della Madonna affrescata sul lato che si affaccia verso il mare servivano a infondere coraggio alle ciurme che si apprestavano a compiere un viaggio di lavoro lungo (il rientro avveniva di solito a fine agosto), faticoso, nonché pericoloso, a causa soprattutto dei corsari barbareschi.



I proventi della pesca del corallo erano soggetti a tassazione e furono sfruttati per costruire chiese, oratori (alcuni di questi edifici religiosi sono ancora oggi ornati con tele e rappresentazioni che ricordano scene della pesca del corallo), nonché sfruttati per le finanze pubbliche e servizi svolti sul e per il territorio.
A bordo dell’imbarcazione da pesca, la “corallina”, il patrone era affiancato dal poppiere: entrambi non toccavano mai i remi.
I marinai, se possibile giovani, venivano ingaggiati con “l’imprestito” o “mutuo”: davanti al notaio, il marinaio si impegnava ad “andare e servire” a bordo di una “corallina”, ricevendo una somma (indicativamente variabile di lire 40 – 45, comportante il pagamento di un interesse, il quale spesso sfociava in usura) che sarebbe stata detratta dalla quota a lui spettante alla fine della spedizione.
Se la pesca andava bene, si poteva estinguere il debito ed anche realizzare un utile, secondo la quota proporzionale spettante sui proventi derivanti dalla vendita del corallo.
Solitamente la pesca al corallo si effettuava “a barcarezzo”, cioè uno sciame di imbarcazioni sotto la guida di alcuni “capi di conserva” (galee armate che fungevano da scorta e difesa da possibili attacchi di corsari e pirati barbareschi, che infestavano i mari in cui veniva effettuata la pesca).
Tuttavia, non era escluso che qualcuno potesse effettuare una campagna di pesca più riservata e più pericolosa, al fine di non condividere informazioni sulla posizione di eventuali banchi coralliferi particolarmente ricchi, anche se una presenza più numerosa fosse utile (almeno due imbarcazioni), qualora si trattasse di disincagliare la rete o “l’ingegno”.
Alcune “coralline” partivano cariche di merci e tornavano ugualmente cariche, non solo di corallo, ma anche di vari beni, i quali erano rivenduti in o tenuti per se stessi (ogni cosa che entrava entro i confini statali doveva essere denunciata).
  
La pesca del corallo era praticata localmente su “coralline” attrezzate, dette “fregate”, che avevano uno scafo sottile e basso, armate di due vele latine, ma adatte alla propulsione a remi (da non confondere con gli omonimi velieri d’alto bordo); a poppa erano dotate un “ingegno”.

L’ingegno, detto anche croce di Sant’Andrea, probabilmente di invenzione araba, era composto da due assi di legno di uguale lunghezza e incrociate, munite di ramponi, sotto i quali era attaccata una rete dentro cui cadeva il corallo staccato; veniva  calato  con  delle  funi  di  canapa  ad  una  profondità  di 50-100 braccia e per  manovrare questo attrezzo, dalla coperta dell’imbarcazione, i marinai dovevano continuamente correggere il movimento della “corallina” e dell’argano a cui era legato l’ingegno stesso.

  
  
Le barche laiguegliesi partivano tutte insieme dopo l’ottava di Pasqua, restando per mare ad agosto.
Nel 1672, il Vescovo di Albenga concedette ai corallari laiguegliesi (dopo pressanti suppliche) di pescare nelle festività non solenni e di devolvere parte del ricavato della vendita del corallo all’Oratorio di Santa Maria Maddalena e non soltanto alla Chiesa di San Matteo a cui era già destinata la contribuzione di un giorno settimanale.
Tale concessione fu uno degli spunti della vertenza con cui gli Anziani di Andora accusano i patroni laiguegliesi di destinare tulle le offerte alla Chiesa di Laigueglia, senza nulla elargire alle povere parrocchie sparse nelle vallate di Andora.
  
Nel Settecento, le conseguenze di ripetute tempeste crearono la distruzione del fondale antistante i nostri tratti costieri e la scomparsa dei banchi di corallo.
Conseguentemente, la storica attività locale della pesca al corallo diminuì fortemente, fino a cessare del tutto e lasciando ricordi di avventure, sacrifici e ricchezze che hanno caratterizzato la vita socio-economica di tanti dei ostri nuclei abitati rivieraschi.
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LE BARCHE DA PESCA
 
Leudo o liuto: due nomi diversi utilizzati per definire la stessa imbarcazione, anticamente utilizzata comunemente in Liguria fino alla metà del Novecento quale imbarcazione da trasporto e più raramente per la pesca.
Era caratterizzato da un albero corto e molto inclinato in avanti, una lunga antenna dotata di vela latina ed un bompresso, retraibile a bordo, su cui erano murati uno o due fiocchi.
Notevoli dimensioni e robustezza ne consentivano una prolungata vita a bordo, oltre al basso pescaggio, grazie al quale poteva approdare a coste con acque poco profonde, potendo essere facilmente tirato in secco.


Tartana

Tartana da pesca: tipica barca da pesca molto diffusa ed utilizzata dal Seicento sino all’inizio del Novecento come battello da carico, lunga 15/20 metri.

Paranza: barca di ragguardevoli dimensioni, utilizzata tradizionalmente per la pesca a strascico (attività da cui prende il nome), dotata di ponte con vela latina ed un bompresso fisso su cui era murato un fiocco.

Bilancella (o paranzella): battello da pesca e da carico più piccolo della Tartana (di cui manteneva forte somiglianza), dotata di vela latina senza fiocco, priva di ponte e timone sporgente dalla chiglia che funzionava anche da deriva.
La caratteristica particolare era determinata dall’albero, il quale poteva essere rimosso per facilitare la calata delle reti.

Gozzo: è una barca da pesca estremamente diffusa, introdotta dagli arabi e copiata fino a distinguersi nelle varie varianti locali dello scafo (Liguria, Toscana, Campania, Sicilia, Puglia, Sardegna), dove assume forme e dimensioni talvolta parzialmente diverse e caratteristiche, così come i nomi con cui viene chiamata.
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IL GOZZO

Sulle spiagge di ogni paese della costa ligure, fino a pochi anni fa, potevano osservarsi i tipici gozzi, le piccole e caratteristiche imbarcazioni colorate dei pescatori locali: tirati in secca in attesa dell’uscita a pesca.
  
Il gozzo veniva movimentato a terra con i pali (“parati”), tavole spesse di legno, a sezione trapezoidale, ingrassati con grasso animale bollito e posti trasversalmente alla spiaggia per farvi scorrere l’imbarcazione.
Il gozzo ligure è più piccolo del leudo (da una lunghezza di metri 3 – 4 a 10) ed un tempo utilizzato prevalentemente per la pesca, con propulsione che originariamente era a remi o a vela latina e più recentemente a motore (l’uso a motore trovò maggiore applicazione in ottica di utilizzo per altri scopi in ottica di maggiori guadagni, come il trasporto di turisti e più ampiamente per perseguire maggiore velocità di spostamento).
Una particolarità dei tempi passati era misurare la lunghezza dei gozzi in palmi genovesi, dove un palmo equivale a circa 25 centimetri ed un normale gozzo da pesca era lungo da 22 palmi (5,5 mt.) a 26 palmi (6.5 mt.).
Questa imbarcazione veniva realizzata da un maestro d'ascia che conosceva a mente tutti i segreti costruttivi e, senza ricorrere a disegni, la costruiva ad occhio (posizionata la chiglia già completa di dritti sullo scalo, si partiva dall'ordinata maestra e con una serie di righelli verso prua e verso poppa venivano gradualmente sagomate le varie ordinate) o con l'uso di “garbi” (modelli di ordinata di legno dell'ossatura a grandezza naturale che, con le dovute correzioni era in grado di dare, partendo dall'ordinata maestra, una buona parte delle ordinate di prua e di poppa), trasmessi gelosamente di padre in figlio.
L'elemento caratteristico di un gozzo ligure è la "pernaccia", il prolungamento di cm 20 – 30 del dritto di prora dal bordo, un elemento più decorativo che funzionale, anche se serve a legare (con un rapido nodo parlato) la cima dell’ancora o la cima di ormeggio.
Il gozzo era originariamente costruito completamente in legno, ma l’evoluzione dettata anche dall’installazione a bordo di un motore, che ha permesso di poter raggiungere velocità di 30 – 35 nodi, ha agevolato anche dalla sostituzione dell’originario materiale legno con la vetroresina per la realizzazione della carena.

  
"Rollo", imbarcazione abbandonata che fu di Napoleone "Leo" Gazzini, l'ultimo navigante andorese

La struttura portante del gozzo è una solida chiglia (di rovere, come i dritti di prua e di poppa che però potevano essere in alternativa di frassino), con sviluppo da poppa a prora, a cui sono attaccate una serie di costole (in rovere, frassino, olmo o acacia, ricavate da uno o più pezzi di legno a fibra curva naturale “i curvami”) che compongono l'ossatura dell'imbarcazione, formando una sorta di gabbia toracica, alla quale viene appoggiate le tavole lignee di fasciame (in genere di pino ligure, senza nodi, mentre le “cinte” cioè le tavole sotto il bordo, spesso impregnate e verniciate con prodotti trasparenti se di rovere o mogano, oppure lasciate a vista senza trattamenti se di teak), disposte longitudinalmente, installando la prima tavola dell'orlo ed il torello e seguite da tutte le restanti.
I masconi, la prua e la poppa sono molto tozzi e la chiglia ha funzione sia di struttura dorsale che da deriva, sporgendo sotto allo scafo e terminando a poppa all'altezza del timone, sorreggendo le femminelle, ed a prora con “pernaccia”.
L’ossatura principale é costituita dai “madieri” sul fondo della chiglia, che si raccordano alle costole mediante gli “staminali” nel punto, detto ginocchio, in cui i fianchi dello scafo si collegano al fondo: dal centro barca verso prua, lo “staminale” si sovrappone al “madiere” verso prora, mentre la sovrapposizione avviene al contrario dal centro barca verso poppa.
Il piano di calpestio è costituito da un assito in legno, avente funzione di potervici camminare, ma senza avere un ponte continuo e stagno (trattandosi di una barca relativamente di piccole dimensioni), con alcune traverse (“banchi” con notevole “bolzone”, cioè molto incurvati verso l’alto, di teak o mogano, privi di braccioli verticali e puntelli a sostegno) sfruttabili da sedile per i passeggeri, e coperture all'estrema poppa ed all'estrema prora, sotto le quali vengono ricavati due gavoni (“gavone di poppa” e “gavone di prora”), delimitati da due paratie, usati per riporre attrezzatura nautica.
Il bordo può essere di frassino, rovere, mogano, e viene incastrato sulle teste delle costole e sulla cinta.
Sulla falchetta si possono trovare due o tre paia di scalmi (di bronzo o di acciaio con gli stroppi di cuoio, o in fibra), a caviglia, sui quali poter fissare i remi (dotati di contrappeso, detto “girone”, per diminuire la fatica durante la vogata e renderli più equilibrati).
I remi (solitamente di faggio, pesanti e con la pala lunga) sono bloccati sugli scalmi attraverso una legatura, detta “stroppo” (di cuoio).
Nei casi di gozzo a motore, quest’ultimo è di tipo diesel entrobordo (all'interno dello scafo), in un apposito spazio verso il centro nave, in modo da agevolare la tenuta al mare e l'efficienza dello scafo, collegato all'elica (posizionata all'estrema poppa dello scafo), attraverso un asse ed un pressatrecce o premistoppa a baderna, mentre il timone è incernierato a poppa, manovrabile con barra o con ruota, secondo le dimensioni dell'imbarcazione.
Alcuni gozzi montano un motore fuoribordo (esterno alla barca), collegato da una piastra in legno impiantata a poppa al posto del timone, unendo il sistema di propulsione al governo dell’imbarcazione, potendo ruotare attorno ad un asse verticale.
Altri hanno propulsione a vela latina montata su un unico albero a centro dell’imbarcazione ed issata mediante un'antenna.
I gozzi di maggiori dimensioni, se "cabinati" (cioè dotati di una struttura che ricopre e protegge il timone - in questo caso di tipo a ruota e non a barra - che può ospitare cuccette di fortuna, estendendosi verso prua), prendono il nome di pilotina.
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TIPI DI PESCA

LE RETI
Anticamente le reti erano realizzate in filo di canapa (macerata e asciugata dal sole), grazie alla accurata opera delle donne, le quali le tessevano in funzione del tipo di pesca che si dovesse praticare, contribuendo alla continua manutenzione e conservazione con ripulitura e periodica “tannatura” (bollitura con polvere di corteccia di pino).
 
RETI DA POSTA FISSE
Il “tramaglio” è una rete di sbarramento, ancorata al fondo mediante una zavorra e segnalata in superficie con un “pedagno”, calata nel tardo pomeriggio e lasciata fino alle prime ore del mattino.
 
RETI DA POSTA ALLA DERIVA
A differenza del tramaglio, non ancorate al fondo ma lasciate libere nella corrente.
Tra le più comuni vi erano la “menaide”e la “sardara”, usate abitualmente per la pesca di sardine e acciughe; venivano lasciate libere alla corrente, non dovendo toccare il fondo e per questo dotate inferiormente di pochi piombi e di molti sugheri superiormente.
  
RETI A CIRCUIZIONE
Utilizzate similmente alle precedenti, per circondare branchi di pesce (acciughe, sgombri, cefali), i quali erano sospinti verso la rete con azioni di disturbo (utilizzo delle lampare o con creazione di rumori in superficie); le due estremità della rete venivano chiuse a sacco.
Lampara
Il termine prende il nome dall’imbarcazione che era dotata di una intensa fonte luminosa ed insieme ad altre due barche, tradizionalmente effettuavano questo tipo di pesca
La fonte luminosa era anticamente ottenuta con una brace di tronchetti resinosi su un su una piastra a prua e successivamente sostituita da una lampada a carburo di calcio.
La rete utilizzata, il “cianciolo”, era una sorta di grande sacco con due ali laterali, dotato superiormente di molti sugheri ed inferiormente di piombi sufficienti a consentire che non affiorasse in superficie; veniva calato in modo da perimetrare uno specchio d'acqua, all’interno del quale si muoveva la “lampara, mentre le altre due imbarcazioni attendevano all’estremità laterali, pronte per chiudere il sacco, tirando le corde delle ali e del fondo (pescando prevalentemente sardine ed acciughe).
Cannata
Sistema simile al precedente, utilizzato sia in diurna che in notturna, ma meno abituale, sebbene si potesse attuare con minori risorse, in quanto erano sufficienti solo due gozzi: una barca calava una rete a semicerchio, mentre la seconda tendeva un’altra rete che non affondava perché sostenuta dalle canne; si spaventava il pesce (solitamente cefali), battendo sul fasciame con oggetti di legno, oppure lanciando ripetutamente in acqua una pietra legata ad una corda, inducendolo ad impigliarsi nella rete.
Rezzaglio
E’ una rete circolare, lanciata dal pescatore, di diametro fino a 28 metri, con cime impiombate per consentire la rapida discesa sul fondale.


RETI A STRASCICO
Sistema di pesca altamente dannoso per l’habitat marino, che subì restrizioni normative già nel Settecento: due barche accoppiate, per mezzo di due lunghi cavi, trainavano un sacco e due ali, che strisciando sul fondo marino, catturavano i pesci.
Paranza
Due barche affiancate (solitamente due paranze) trainavano una grossa rete a strascico che formava un sacco conico, il quale presentava ai lati due lunghe ali che terminavano ciascuna con una stazza di legno, destinata a tenere distesa l’ala a cui era collegata, in modo da tenere aperta la bocca del sacco.
Ad ogni stazza era unito un sistema di corde convergenti ad un grosso cavo di canapa, con il quale la rete era rimorchiata.


Pesca a "sciabica" sulle coste andoresi di Ponente, nelle vicinanze del "scöggiu quadràtu"

Sciabica
Era il più antico "mestiere" locale, una rete composta da un sacco e da due ali (simile alla paranza), lunga fino ad un centinaio di metri ed usata in acque poco profonde vicino alla costa: trainata da una coppia di barche, ma poteva anche essere azionata da terra, dove fissata un'estremità, si distendeva circolarmente con una barca, portando a terra l'altra estremità e recuperandola.
Nell’impiego da terra si impegnavano una quindicina una quindicina di persone, prevalentemente donne, bambini ed anziani.

Nassa
Realizzata con giunchi, di forma a barile con una strozzatura in basso, attraeva il pesce per mezzo di un’esca all’interno, imprigionandolo.
Veniva calata la sera e ritirate al mattino e rappresentavano una tecnica di pesca povera, spesso praticata da anziani che non prendevano più il mare aperto.
  
Palamito
Attrezzo costituito da un cavo principale molto lungo, detto "trave", al quale erano fissate delle diramazioni, i "braccioli", che portavano gli ami di forma e dimensione diverse (dipendentemente dalle specie da catturare).
I palamiti venivano ancorati al fondo con pesi e segnalati in superficie con “pedagni”.
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