LA CACCIA - Geometra Mario Vassallo

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LA CACCIA

SUL SENTIERO DEI RICORDI > LA VITA NEL NOVECENTO ANDORESE
LA CACCIA
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La caccia era praticata da tutti i componenti maschili della famiglia contadina, chi più e chi meno, secondo proprie preferenze, abitudini e capacità:
  • si comincia da piccoli, con le artigianali fionde (un’arma da tiro, costituita da un corpo di legno a forma di “Y”, opportunamente scortecciato e levigato, ottenuto da una forcella di rami, possibilmente di olivo, ma andavano bene anche altre essenze legnose, curandosi che le due estremità della forcella fossero più simmetriche possibili, sia per inclinazione rispetto al manico che per dimensione, alle cui estremità venivano fissate con intaglio e strette legature, due elastici di caucciù, oppure di camera d’aria da bicicletta; le due estremità degli elastici opposte all’attacco alla forcella venivano unite da una “pezza” di cuoio o pellame, derivante da un ritaglio di una tomaia di una vecchia scarpa non più utilizzabile; tale “pezza” costituiva l’impugnatura e la bocca di lancio, all’interno della quale venivano posizionati sassolini, cocci, pizzicate di pallini di piombo; tenendo con una mano l’impugnatura in legno e con l’altra la “pezza” stretta tra pollice-indice-medio, si portavano in tiro al massimo possibile gli elastici, puntando il bersaglio e mirandolo in allineamento tra estremità superiori della forcella di legno e l’attacco sul manico, fino a rilasciare la “pezza” e scoccare il tiro);
  • si aiuta a mettere trappole come i “ferretti” (delle specie di piccole tagliole con profili metallici delle dimensioni di un grosso filo di ferro; operavano con il principio dello scatto a molla, tenendo aperte le due parti semicircolari per mezzo di un’astina, la quale veniva leggermente poggiata sotto un elemento centrale a caduta, il quale reggeva un “pezzetto” di cibo-trappola, come un tozzetto di pane, un lombrico o un verme, ecc.; l’appoggio tra l’astina e l’elemento centrale costituiva un vincolo instabile, per il quale era sufficiente una lieve sollecitazione per farlo scattare; una beccata, oppure il semplice passaggio del volatile all’interno del perimetro del “ferretto”, o ancora un battito d’ali, erano sufficienti ad azionare la trappola, anche se raramente il malcapitato riusciva miracolosamente a trovarsi nella parte vuota del congegno ed a salvarsi; tale trappola veniva mimetizzata con poche foglie secche e spolverate di terra-sabbia, facendo attenzione di non creare troppo spessore in caso di chiusura, talvolta fissandolo con uno spago ad un tronchetto infisso nel terreno ad un paio di palmi di distanza; qualcuno lo utilizzava anche posizionato sui rami degli alberi, ma con scarsi risultati);
  • la "ragna", chiamata in modi svariati secondo le abitudini e varianti locali, era un sistema non molto ulitizzato, perchè più facilmente identificabile dalla preda rispetto ad altri metodi; si tratta di una rete, oppue un "coperchio" formato da un telaio di legno o ferro che contiene una rete, poggiato ad una estremità al terreno e sollevato in posizione opposta con un bastoncino che lo puntella; al bastoncino è legata una cordicella tenuta in mano all'estremità opposta da una persona nascosta dietro ad un cespuglio, una catasta di canne, una porta, ecc.; sotto alla rete si sparge della granaglia, ci si nasconde e si aspetta che giunga la preda; quando arriva ed è distratta a mangiare, si tira di scatto la cordicella, che elimina il puntello del bastoncino, facendo cadere la rete, la quale dovrebbe imprigionare la preda;
  • le “gàgge”, piccole gabbie in listelli di legno, simili a voliere, ma di forma allungata, dove viene internato solitamente un pettirosso, il quale svolazzando all’interno della stesse e saltellando avanti ed indietro attira l’attenzione di altri volatili che si avvicinano e rimangono intrappolati appiccicandosi col piumaggio a rami coperti di sostanza vischiosa, da cui vengono raccolti dal “cacciatore”;
  • la variante più semplice delle “trappe” (lo stesso sistema con i rami, ma senza il richiamo in gabbia), le “paàne” o “panie” (mazzi di pagliuzze, rametti e steli, invischiati e sparsi in prossimità di fonti di cibo come cespugli di bacche o fonti d’acqua e rigagnoli; il volatile arrivava a cibarsi o ad abbeverarsi e quando svolazzava via, soprattutto se aiutato da uno spavento, col battito d’ali urtava i componenti invischiati e vi rimaneva imprigionato appiccicandosi col piumaggio, venendo raccolto dal “cacciatore”; questo sistema veniva particolarmente utilizzato nelle giornate molto fredde, in presenza di neve e gelate, scoprendo una piccola superficie in cui veniva sparsa della granaglia mista alle “trappole invischiate” ed il richiamo rappresentato dalla presenza di cibo facile diventava fatale).
Crescendo ci si dedicava alla caccia “al volo”, cioè sparando col fucile alla selvaggina in volo, appostandosi “ai passi”, cioè in luoghi di passaggio giornaliero o migratorio, magari in compagnia e distanziati di 30 – 40 metri, in modo da creare un cordone di tiro al volo che lasciava pochi sopravvissuti tra i volatili che tentavano di attraversarlo.
Questo momento di caccia veniva sfruttato principalmente al mattino presto ed all’imbrunire, quando la selvaggina si dirigeva ai luoghi di ricerca del cibo, o al ritorno presso i nidi.
La variante giornaliera era rappresentata da “battute” in solitaria o in compagnia attraverso boschi, ma soprattutto campi, dove spesso si sparava inizialmente direttamente “a terra” ed in sequenza “al volo”, appena i volatili si alzavano in volo dopo i primi spari o dopo aver avvertito il pericolo.
Gli anziani preferivano un tipo di caccia più statico, ma non meno redditizio: “la posta” (l’appostamento).
Questa era una metodologia di caccia che implicava l’allevamento ed il mantenimento di validi richiami (solitamente tordi e merli), che venivano catturati o con vischio o tra i feriti di caccia meno gravi, che sopravvivevano, magari per ferite alle ali (compromettenti per il volo), ma guaribili.
Venivano imprigionati dentro a piccole gabbie.
Al mattino presto, alcune ore prima dell’alba, il cacciatore andava ad appostarsi in silenzio in zone boschive abitate dai volatili e/o in luoghi limitrofi che frequentavano; portava con se’ una serie di gabbie con tordi e merli da richiamo, coperti da un telo, in modo che nonostante la movimentazione non si svegliassero più di tanto e non cominciassero a cantare.
Nei pressi dell’alba, quando gli uccelli si svegliano, i richiami venivano scoperti, in modo che cominciassero a cantare, attirando i propri simili, ancora intorpiditi dal sonno.
Appena questi ultimi si approssimavano al luogo di appostamento, attirati dal canto dei richiami, il cacciatore, comodamente seduto e nascosto dietro ad una capanna di rami, non doveva fare altro che sparare a sagome vicine, spesso ferme perché poggiate su rami, a comoda portata di tiro e passare a raccogliere il frutto del proprio assalto a sole già sorto.
In tempi passati la caccia locale era libera su praticamente tutte le razze più comuni di volatili; successivamente, a causa dell’aumento dei terreni coltivati, ridotti a causa dell’intensificazione dello sviluppo edilizio, ma anche dell’attività venatoria effettuata sempre più scempiamente per sport, seppure non più per necessità alimentare, vennero fissate riduzioni su numero di esemplari e di specie.
Ma era già troppo tardi, perché alcune specie, ridotte drasticamente di numero e per le quali erano mutate troppo le caratteristiche ambientali, sparirono dalla abitudinaria presenza locale (frosone, crociere, passero, ciuffolotto, lucherino, verzellino, verdone, per un lungo periodo anche il cardellino, fringuello corso, beccaccia e beccaccino, ecc.).
Tutte le avventure di caccia diventavano un vanto di ogni singolo cacciatore, una sorta di gioco al rialzo, per descrivere gesta eroiche fucile contro ali.

Per chi lo possedeva, un fedele ed immancabile compagno di caccia era il cane: spesso un “incrocio” (non razza pura), quasi sempre di taglia medio piccola, imparentato con breton o cocker, con la coda rigorosamente mozzata, il quale era stato attentamente addestrato dal singolo cacciatore principalmente al riporto, contando molto sul fiuto, l’obbedienza, la capacità di non masticare la preda cacciata, magari in cambio del dovuto premio con un pezzo di galletta.
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Nella mia generazione, chi come me appartiene ed è cresciuto in una famiglia contadina è stato tra gli ultimi ad assaporare e vivere direttamente le testimonianze di quello che era il mondo contadino, un insieme di abitudini, tradizioni, gesti e comportamenti di tutti i giorni che la successiva e rapida modernizzazione ha trasformato, spazzando via quasi tutto ciò che apparteneva al passato, di cui si preservano i ricordi.
E proprio i ricordi, col passare del tempo si allontanano, svanendo, finendo dimenticati nell’indifferenza.
Anche piccole cose hanno contribuito a segnare le vite ed insegnare alcuni valori a molti di noi.

     

Mi sono fermato a cercare di ricordare, accorgendomi di non aver dimenticato e, per una volta, ho voluto non dedicarmi solo alla raccolta generale dei ricordi degli altri, della storia, dei documenti, ma semplicemente riportare qualcosa che mi appartiene e di cui ho fatto marginalmente parte: quotidianità che mi sono state tramandate in famiglia e che ho avuto la fortuna di poter vivere direttamente, mentre stavano gradualmente e repentinamente scomparendo, ma che mi hanno in qualche modo accompagnato fino ai 10-12 anni, segnando la mia infanzia e determinando ciò che sono e chi sono diventato.
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COSE DA "GRANDI"

I genitori dedicavano tutta la propria giornata al lavoro, restando fuori di casa dal mattino presto fino alla sera, dopo che era sceso il buio.
La cena rappresentava il pasto giornaliero da trascorrere in famiglia con più tranquillità e il dopocena diventava per i bambini il momento in cui si assisteva e partecipava alle "cose da grandi", portando un po' di disturbo .... con tanta voglia di crescere.

Nell’originaria impostazione per necessità, la preparazione alla caccia rappresentava una componente del tempo da trascorrere insieme in famiglia.
E così, nelle sere trascorse in casa, dopo una lunga giornata di duro lavoro, dopo avere consumato la cena, nella cucina le donne di casa si occupavano delle faccende domestiche (stirare, rammendare, lavorare a maglia), mentre gli uomini di famiglia (anche i bambini prima di andare ad addormentarsi) si dedicavano all’arte di “caricare le cartucce”, ovvero una tradizione condivisa tra generazioni, basata come sempre sulle proprie esperienze reciproche, secondo cui si studiava quanto le cartucce “tagliassero” (funzionassero) durante le giornate di caccia; si studiavano così miscugli e dosaggi di polveri da sparo, rapporti con la quantità in peso di pallini di piombo, creando varianti diverse di cariche, da provare ed utilizzare secondo umidità del giorno, caratteristiche atmosferiche ed ambientali e addirittura per tipo di caccia o di selvaggina con cui utilizzarle.



I bossoli erano ancora in cartone e venivano riciclati raccogliendoli dopo essere estratti dalle canne del fucile in seguito allo sparo: occorreva stare attenti che non fossero umidi e se raccolti in giornate successive (perché alcuni cacciatori non di “abbassavano” a raccogliere le cartucce già sparate, lasciandole a mucchi sulle postazioni, così che qualcuno successivamente le avrebbe recuperate), il corpo in cartone doveva essere non gonfio, non intaccato da lumache, asciutto e la culatta metallica non doveva presentare segni di ossidazione.
Ai bossoli già utilizzati veniva rimossa la capsula nella culatta (la parte esplosa in seguito all’urto con il percussore del fucile), sostituendola con una nuova, che veniva inserita con un macchinario metallico a leva chiamato “calibratore” (questo utensile sfruttava il criterio della “leva” con un maniglione su un telaio a cui erano applicati due braccetti. uno era costituito da un punzone che inserito nel bossolo dalla sommità ed azionato “a spinta” dal maniglione serviva ad estrarre la capsula; il secondo, abbassato ad abbracciare la culatta del bossolo, dopo avere posizionato la nuova capsula, ed azionato “in tiro” dal maniglione permetteva di applicare correttamente la capsula sostituita).
Quando si provvedeva a caricare nuovamente il bossolo, si procedeva come segue:
  • sul fondo del bossolo si inseriva la polvere da sparo, in dosaggi variabili tipo 1,55 – 1,75 grammi;
  • la polvere veniva compattata e compressa all’interno del bossolo con un pistone del diametro esatto pari all’interno del calibro del bossolo;
  • sopra alla polvere da sparo si inseriva, tipo coperchio, un cartoncino circolare di diametro esatto al calibro interno del bossolo, pressandolo sufficientemente sopra alla polvere da sparo stessa;
  • quindi, veniva inserita una “buretta” cilindrica (di un materiale simile al sughero), la quale poteva essere tagliata su misura, in modo che si adattasse a riempire coerentemente l’interno del bossolo in base al contenuto dosato di polvere da sparo e piombo;
  • sopra alla “buretta” veniva inserito il piombo, sotto forma di pallini di vario “calibro” o “misura” (esempio pallini del 10 per selvaggina comune, dell’8 per storni e allodole, del 4 per colombi), in un dosaggio variabile tipo 30 – 35 grammi; i pallini erano a disposizione in una tazza da caffelatte e venivano prelevati con un piccolo mestolino cilindrico;
  • sopra ai pallini di piombo veniva messo un altro cartoncino circolare (come già descritto sopra alla polvere da sparo);
  • infine veniva fatto l’orlo al bossolo di cartone, arrotondando verso l’interno dello stesso l’estremità cilindrica; questa operazione veniva effettuata con una attrezzo metallico chiamato “macchinetta” o “orlatore”, dotato di sedi a calotta cilindrica per contenere le due estremità del bossolo, una leva per fare pressione tra le due estremità (in pratica per comprimere la testa di cartone da orlare) ed una manovella affissa alla calotta cilindrica dedicata alla testa del bossolo; premendo le due estremità e ruotando velocemente la manovella, si realizzava l’orlo di chiusura (bisognava fare molta attenzione che fosse un orlo regolare ed omogeneo, perché altrimenti il bossolo avrebbe potuto esplodere in malo modo, creando danni anche pericolosi e lesionando la canna del fucile; questa lavorazione poteva essere eseguita fissando la “macchinetta” al tavolo, ma più comunemente e “mascolinamente” la stessa veniva imbracciata facendo pressione tra avambraccio e costato;
  • in alcuni casi, soprattutto per i periodi più freddi o ventosi, si aggiungeva una goccia di cera di candela, sciolta sopra al cartoncino di chiusura, per la convinzione che il maggiore peso del cartoncino di chiusura mantenesse maggiormente e più a lungo compatto il getto di pallini di piombo dopo lo sparo.
Alcuni bossoli avevano la chiusura a stella, presagomata in testa agli stessi; in tale caso, qualcuno dei cacciatori, ometteva il cartoncino sommitale di chiusura.
Nei casi in cui si preparasse la carica per battute di caccia “importanti” come per lepri e fagiani, i bossoli diventavano “corazzate”, cioè cartucce con una culatta metallica più alta, che venivano caricate con dosaggi un po’ più consistenti (di poco), e solitamente con pallini di misura più grande (del 4); la maggiore culatta infondeva maggiore potenza allo sparo.
Durante il caricamento delle cartucce, i dosaggi erano effettuati piuttosto attentamente con un bilancino di precisione (tipo quelli da farmacia), dedicando meccanicamente le prime pesate alla polvere da sparo ed infine dedicandosi ai pallini di piombo.


Il bilancino di precisione usato nel caricamento delle cartucce


Una "caricatrice" di cartucce: un attrezzo manuale che permetteva di riempire il bossolo, alternativamente, con il giusto dosaggio di polvere da sparo o di pallini di piombo

In tutta questa arte rituale, i bambini aiutavano a cambiare i pesi sulla bilancia, giocavano con il mestolino dentro al recipiente in cui venivano versati i pallini di piombo (spesso rovesciandoli e spargendoli tutto intorno), inserivano le “burette” che i grandi pressavano; un segno che si stava crescendo era quando veniva concesso di fare il primo orlo.


Questo particolare "misurino", usato alternativamente per polvere da sparo o pallini di piombo, ma più abitualmente per questi ultimi, permetteva di calibrare il dosaggio grazie al fondo regolabile con filettatura "a vite", garantendo di automatizzare, una volta tarato, alcune delle operazioni di carica dei bossoli

Il calibro più comune di cartucce era il 12 (altri calibri meno comuni erano il 20 e il 28 e, più anticamente anche il 16) e le polveri da sparo erano variabili, soprattutto anche in funzione delle convinzioni personali: le più comuni Anigrina (che alcuni evitavano perché si diceva avesse un maggiore effetto corrosivo sull’interno delle canne dei fucili), S4, MB, GP, Acapnia, Ballistite, Nike, Universal (alcune di queste venivano mischiate tra loro e l'ultima citata era da alcuni miscelata con aggiunta di polenta!).


Confezioni originali di alcune delle polveri da sparo utilizzate

I fucili, indipendentemente dalle marche, erano di tipo “a doppietta” (due canne affiancate in orizzontale – due colpi), “sovrapposto” (due canne affiancate in verticale – due colpi), “automatico” (una sola canna – inizialmente cinque colpi, con possibilità di serbatoio per estensione a sette colpi, successivamente ridotto a tre colpi).
Le “battute di caccia” erano spesso organizzate a gruppetti di partecipanti, oppure si limitavano ad una breve divagazione nel corso della giornata: mentre si stava lavorando nei campi, notando uno stormo di volatili che atterrava in un terreno nei dintorni (non esistevano recinzioni e praticamente nessuno si opponeva alla caccia di altri nei propri possedimenti), si recuperava velocemente a casa il fucile, una manciata di cartucce, e via verso il terreno dove stavano “razzolando” i volatili, i quali talvolta si trovavano tra due fuochi a causa dell’intervento del padrone del terreno.
L’attrezzatura, pressochè immancabile, era costituita da:
  • la “pigna”, una serie di cordicelle legate in sommità a formare una sorta di grappolo; sempre in sommità era presente un moschettone per poterla agganciare ad un passante della cinghia dei pantaloni; ogni cordicella terminava con un anello metallico, dentro al quale veniva fatta passare la cordicella stessa creando una sorta di cappio, al quale venivano appesi i volatili cacciati; alcuni cacciatori la ostentavano appesa alla cintola, in bella vista, al fine di vantare le proprie capacità venatorie e la propria abilità del giono;
  • la “cartucciera”, una larga cintura in cuoio al cui esterno erano presenti una quarantina di tasche per contenere ognuna una cartuccia; si indossava armeggiando con una semplice fibbia in metallo e nei vari alloggiamenti per le cartucce, queste ultime venivano organizzate secondo un principio logico di possibile scelta veloce; infatti, ad una delle estremità erano messe le “corazzate”, per selvaggina più grande ed una o due cartucce a pallettoni, dedicate alla rara eventualità di incontrare e sparare ad un cinghiale; quest’ultimo tipo di bossoli erano aggiunti per completezza, nella sporadica eventualità che potessero servire, ma nella maggior parte dei casi risultavano un peso “inutile” trasportato ogni volta e mai utilizzato nel corso di un a vita; tulle le altre cartucce erano ordinate in base a caratteristiche, dosaggio di carica, più vecchie e più nuove, spesso alternate da un alloggiamento vuoto per riconoscerne rapidamente la posizione al tatto, senza dover guardare e perdere di vista la preda;


La "cartuccera", con esempio delle cartucce alloggiate

  • la "ciùcciua", una o più richiami per imitare i canti di alcune razze di volatili; si trattava di un disco cilindrico metallico, simili ad un bottone, ma con i bordi incassati, un foro centrale ed all'interno una o più lamelle circolari; veniva posizionato in verticale tra le labbra e intermittendo e modulando sapientemente il soffio con la posizione della lingua ed eventualmente della mano apert-chiusa a contatto esternamente alla bocca, si ricreava il canto-richiamo di alcune specie specifiche, attirandone gli individui in alternativa ai richiami con "gabbie";
  • il “gippunèttu” (una giacca, spesso senza maniche, con ampie tasche, tra cui la caratteristica “cacciatora”, cioè un grosso tascone sulla schiena, passante da un lato all’altro del corpo, dentro al quale di posizionava pressochè di tutto, come il panino da spuntino, la selvaggina cacciata, una ulteriore giacca, ecc.).
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ATTREZZATURA PER LA CACCIA
  1. Punzone per estrarre le capsule esplose;
  2. estrattore di "burette";
  3. contenitori in plastica per pallini di piombo, utilizzati in sostituzione delle "burette" in sughero;
  4. misurino;
  5. pistoncini per pressare i cartoncini circolari all'interno dei bossoli;
  6. base per inserimento/estrazione capsule;
  7. nuove capsule;
  8. "burette" in sughero;
  9. imbuto per versare polvere da sparo e pallini di piombo all'interno dei bossoli;
  10. tazza/recipiente dove versare alternativamente polvere da sparo o pallini di piombo, successivamente prelevati per dosaggio con il misurino;
  11. cartoncini circolari di dimensione/diametro interna del bossolo, usati in "copertura" al contenuto di polvere da sparo e dei pallini di piombo (talvolta usati anche come spessore interno).
  1. Punzone per estrarre le capsule esplose;
  2. estrattore di "burette";
  3. "orlatrice";
  4. "orlatrice"
  5. ricambi per sedi bossolo "orlatrice"
CARTUCCE CALIBRO "12"
  1. Bossoli in cartone ricaricati;
  2. "corazzate" con bossolo in plastica;
  3. bossoli nuovi in cartone "da caricare";
  4. bossolo in plastica.
  1. Estrattore di bossoli incastrati nella canna del fucile;
  2. "richiami" per riprodurre i versi di alcune specie di volatili;
  3. "pigna" a cui si appendevano i volatili cacciati, dotato di moschettone per appenderla alla cintura o al passante dei pantaloni.
Partita IVA 01082590090
Geom. Mario Vassallo
Via San Damiano 21
17051 Andora (SV)
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MARIO VASSALLO
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